Ben oltre le ragioni di una scelta – abortire o no – c’è la narrazione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza che invece di essere riconosciuto e valutato esclusivamente come un servizio medico garantito dal Sistema Sanitario Nazionale viene spesso considerato quasi solo un problema morale, confinato alla voce “trauma personale” e quindi necessariamente correlato alle parole dolore, vergogna, colpa, ferita, perdita.
Il fatto che esista una legge che riconosce a tutte le donne il diritto ad interrompere volontariamente una gravidanza senza rischi ed in modo sicuro, non ha fatto sì che la società ne accettasse e interiorizzare in modo naturale anche il racconto connesso, ovvero la possibilità che a rivendicare il diritto all’aborto sia una donna autodeterminata e consapevole che, con serenità, esprime la scelta migliore per se stessa.
Ostacolo dei diritti garantiti dalla Legge 194/78 infatti non è solo il massiccio ricorso all’obiezione di coscienza, ma la retorica del dolore connessa alla volontà di abortire: la condanna morale e la conseguente mancanza di di supporto sociale diventano uno strumento persuasivo pericoloso utilizzato da chi vuole rendere illegale l’aborto e da chi, cavalcando l’onta della vergogna, promuove una narrazione che fa della donna la protagonista di un assassinio o la vittima di un trauma psicologico che la lascerà profondamente turbata.
Il superamento dello stigma può essere facilitato anche attraversato l’abolizione di un linguaggio recriminatorio e colpevolizzante la cui presunzione è quella di decidere a monte le emozioni provate dalle donne: come se l’aborto debba sempre essere sofferto e traumatico e non includa la possibilità di una scelta compiuta in uno stato di libertà e autonomia, nel pieno desiderio di autodeterminarsi.
Occorre lavorare su nuovi linguaggi che possano diventare strumento culturale con cui contrastare e abbattere l’egemonia della narrazione tragica dell’aborto. La stessa letteratura scientifica, e di riflesso il personale medico, individua l’interruzione volontaria di gravidanza come trauma e inquadra la “sindrome post-abortiva” come un percorso doloroso e obbligatorio per tutte le donne che fanno richiesta di un servizio medico che ancora oggi non può contare su un adeguato supporto professionale a sostegno di un bisogno legittimo. Statisticamente è quasi del tutto impossibile che una donna che si reca in ospedale abbia l’opportunità di trovare sia un medico obiettore che uno non-obiettore nello stesso turno: la media nazionale di ginecologi obiettori supera il 70%, un dato che la dice lunga anche sulle enormi difficoltà incontrate dai non obiettori nel farsi carico della mole di lavoro che riguarda l’interruzione di gravidanza.
Riportiamo qui un estratto tratto da un articolo pubblicato su Wired a firma di Chiara Lalli, docente di bioetica, una storia che vorremmo rientrasse nel racconto ordinario legato all’aborto.
“Io ho abortito perché non volevo un figlio e sto bene, sono sempre stata bene e non ho mai rimpianto la mia scelta. Se dovessi scegliere una sola parola per descrivere il mio aborto, direi: sollievo. Sollievo anche per non essere stata costretta a ricorrere a rimedi illegali e pericolosi o a prendere un aereo. Come milioni di donne al mondo devono fare. Ho abortito e sto bene. Non solo in quel momento, ma tutte le volte che mi è capitato di ripensarci”.