Riceviamo e pubblichiamo una testimonianza per “Ho abortito e ve lo dico. Senza colpa e senza vergogna”, la rubrica con le vostre testimonianze sull’interruzione volontaria di gravidanza.
[Illustrazione di Susanna Morari]
Quel giorno, quando tutto è iniziato, ricordo ancora le mani sul mio viso, di un’amica che mi ripeteva, nell’asciugarmi le lacrime, che la mia vita non era un fallimento. Sulle spalle un peso che mi sembra un macigno, inutili (li vedo solo ora) sensi di colpa per la fine della relazione con il padre di mio figlio, che porta ancora pesanti strascichi nonostante fossero passati un paio d’anni. Una fine arrivata lentamente, per logoramento, e che però sento quasi una mia responsabilità, come se in quanto madre dovessi fare ancora di più per tenere in piedi una famiglia che è frantumata ormai da tempo. Cerco di andare avanti, di motivarmi e non chiudermi troppo in me stessa, ma non è facile. La solitudine preme, e sento su di me una colpa ingiusta, so che le responsabilità sono da entrambe le parti, razionalmente. Ma basta un messaggio per ricadere nello sconforto, per interpretare qualsiasi variazione di umore di mio figlio come un segnale di disagio causato dalla separazione. Non frequento nessuno, a parte le poche persone che ho modo di incontrare a lavoro e con cui scambiare cortesi ipocrisie. Non ci mette poi molto a farsi largo lui. Ha vent’anni in più, un fare deciso, ammiccante, sapeva dove colpire. Sente, vede, la mia fragilità. Non so più cosa voglia dire ricevere attenzioni, sentirsi meno soli e tristi di come mi sento io ormai da tempo rinunciando persino a parlare con le poche persone capaci di ascoltare. Cedo, e continuo a cedere, rendendomi conto di non essere del tutto me stessa, ma trovando così una via di sopravvivenza, forse. Ancora non sono in grado di dirlo. Non si può chiamare amore, non lo è. Non per me. È una strana dipendenza emotiva, fisica, vissuta tra sotterfugi e menzogne, per poi rendermi conto che non mi fa bene neanche questo, che dovrei tornare nella mia solitudine, troppo a dividerci, in ogni cosa. Le incomprensioni crescenti, un’altra forma di oppressione, seppur in altri termini e con una cornice diversa, ma in fondo non così lontana da quella che negli anni precedenti avevo cercato di lasciarmi alle spalle. Decido di interrompere ogni cosa. Tardi. Sto male e non voglio credere a quelle sensazioni, non voglio credere al mio corpo.
La scoperta alla fine. I pianti interminabili. La disperazione, ogni volta consumata in silenzio per cercare di non far notare nulla a mio figlio e alle persone con cui devo avere a che fare. Non credo a quel che mi sta accadendo e mi sento nel fondo della mia vita, nell’angolo più oscuro. So che da quel momento tutto sarà irreversibile. Non ci sono più notti non ci sono più giorni, solo una disperazione senza fine che mi fa vacillare, sto crollando giorno dopo giorno. Credo che per qualsiasi donna decidere di abortire sia qualcosa di atroce e inevitabile, perché chi lo fa sente di non avere altra scelta. Chi lo fa essendo già madre porta con sé anche il fardello di essere consapevole di privare se stessa e gli altri di quel che rappresenta la gioia di una nuova vita, e si condanna da sola a fare i conti con quel peso per il resto dei suoi giorni, un peso che può apparire a tratti più lieve e a tratti insopportabile, ma che rimane sempre lì, saldo sulle spalle. Oltre alla difficoltà personale di fare una scelta simile ne ho incontrate altre, a partire dall’assenza di conforto e comprensione da parte di quello che sino ad allora era stato il mio ginecologo. Quella mattina, una volta accertata la gravidanza, prima si congratula, poi si mette le mani nei capelli nell’udire le mie parole. Accelera la compilazione dei suoi fogli, mi liquida dicendo di andare al consultorio e che da quel momento lui non può più essermi utile. Dopo le trafile da seguire e le analisi, una data. Ogni anno ancora oggi sento pietrificarsi una parte di me, il ricordo, indelebile di quel giorno. Il ricordo della menzogna allestita intorno, per la certezza che nessuno, NESSUNO, avrebbe capito, ma solo giudicato, e per un senso di vergogna e di colpa profonde, che non si dovrebbero provare perché basta già il dolore che ogni giorno si consuma in silenzio dentro di te da quel giorno in poi. Intervento laparoscopico la versione ufficiale. Talmente dentro quella copertura che so nel dettaglio tutto quel che non dovrò subire, e solo lo stretto indispensabile di quel che invece dovrò affrontare. Solo nel corpo, perché per quel che si vive dentro non esiste preparazione.
Chi non sa cosa voglia dire abortire, non può e non deve giudicare chi arriva a farlo. Dalla notizia di quella data all’arrivo di quel giorno vivo ogni istante nell’angoscia perenne, in un vortice senza uscita, smarrita in ogni senso, e con la paura costante che qualcuno possa intuire quel che sto attraversando. Preoccupata degli altri, sempre e solo, di come avrebbe vissuto una notizia simile il mio ex, o mia madre. Non mi resta che il silenzio, un silenzio che mi sta lentamente facendo impazzire. Cerco di rimanere salda, aggrappandomi agli impegni, alle cose da fare. Ricordo ogni istante di quella terribile e dolorosa attesa quel giorno, il modo di sistemare nervosamente le mie cose nell’armadietto, dopo aver indossato una camicia da notte scelta tra poche altre per poi passare ore interminabili in una solitudine non condivisibile neanche con chi sta nel letto accanto e si prepara ad affrontare la stessa cosa. Un libro in mano letto senza leggere, nel vuoto della mente, nel buio dentro. Nel freddo sentito quando la donna dalla divisa viola dopo avermi interrogato sui miei dati personali mi invita a seguirla facendomi lasciare la felpa in camera. È tutto ancora fermo lì, nella mia mente, con lei che sente forse il mio terrore malcelato nel mostrare una disinvoltura che non conosco. L’arrivo e la percezione di confusione, qualcuno che discute sui turni. Io non mi stacco da lei, mi indica una stanzetta dove spogliarmi e riporre i pochi indumenti in una busta con il mio numero, il 23. Posso tenere solo una maglietta bianca, ho freddo. Devo stare su un lettino, mi stringe qualcosa sulle gambe. Arriva un’altra donna, è gentile. Mi chiede qualcosa che non ricordo, quando sto per risponderle è già sparita. Poi torna, cerca la vena, la trova alla fine, infila la cannula. Cerco di coprirmi come posso con l’unico telo che ho su di me. A mala pena respiro. Quel freddo sembra entrarmi nelle ossa. Da quel momento solo le luci che vedo distesa sul lettino, veloci, e le voci intorno a me, chi cerca di imparare il mio nome, chi mi chiama tesoro. Poi tante luci contemporaneamente su di me, di diverse tonalità. Il disinfettante. Un freddo intollerabile. Poi finalmente l’anestesia, la testa che gira vorticosamente. Non vedo più nulla. Quando mi sveglio non so quanto tempo sia passato. Trovo occhi che sorridono per me, una donna dalla cuffietta fantasia e l’accento sudamericano. Mi dice E’ tutto finito sai. E io vorrei solo abbracciarla. Non so quanto è passato, non riesco a muovermi, ma mi sento finalmente in pace, una strana pace mentre le lacrime scorrono senza fine. Arrivo in camera sul lettino, mi posizionano nel letto dopo avermi sistemato e in qualche modo rivestito. Chiedo due coperte. Devo stare immobile, me lo impongono. La ragazza del letto accanto al mio trema, non sta bene, è evidentemente sconvolta. Io non so dirle nulla. Cerco di chiudere gli occhi, e di non sentire la sua tristezza. Quasi non mi riconosco in quel comportamento, incapace di alcunché. Non ho parole per lei, non ne ho per me. Attendo. Non ho la percezione del tempo che scorre, non so quanto ne sia passato, a fianco a me la ragazza riceve visite, ben tre persone diverse che vanno e vengono e si prendono cura di lei. Intuisco solo che si chiama Sara, che vive anche lei da sola con un bambino, credo abbia giusto un paio d’anni meno di me. Il controllo della dottoressa, nuove visite, altre attese sempre da quel letto a fissare il soffitto. Il ritorno a casa, le telefonate a cui non riesco a rispondere, una bolla di silenzio in cui rimango immersa. Penso alla mia vita, a quel che devo cambiare, alle possibilità che nonostante tutto mi continua a dare. Alla necessità di proiettarmi sempre verso il futuro, anche se difficile. Piango.
Quel che arriva dopo è un vuoto orribile e rasserenante, nella dolorosa presa d’atto di aver preso l’unica strada possibile, non priva di conseguenze durissime. Nella mia mente sono ancora impressi i fotogrammi di quel giorno, ritorno innumerevoli volte su quel che non avrei dovuto accettare, mi colpevolizzo per tutto, so che non si torna indietro, e che serve solo essere consapevoli del presente e accogliere i propri errori come passi. Il peso sul cuore non è certo smarrito, è un fardello che accompagna i miei giorni anche ora che provo a parlarne perché sento il dilagare dell’odio e dell’incomprensione da parte di chi si permette di emettere sentenze sui drammi altrui non vedendoli ma arrogandosi il diritto di giudicare con riprovazione. Mi costa scrivere ogni singola parola su questo, ma lo faccio perché sento che è necessario, perché non è giusto rimanere in silenzio davanti a accuse feroci come quelle subite da chi ha riconosciuto pubblicamente di aver abortito. Sono accuse ingiuste e vili. Mi ripeto ancora oggi tante cose, so che non esiste una via per assolvere sé stessi. Chi attacca, critica, condanna, non solo non sa, ma non considera cosa vive la donna che compie un passo simile, il dolore profondo frammisto a una indefinita e ingiusta percezione di vergogna, vissuta proprio a causa di una società che tende più a giudicare che a voler davvero comprendere, celandosi dietro un perbenismo bieco. Si tratta di un diritto da difendere e preservare, che rappresenta un traguardo per generazioni di donne costrette a accettare in silenzio ciò che altri decidevano per loro. Occorre rispettare il dolore e le scelte altrui, magari provando a pensare solo per un attimo a quel che vive chi si trova a dover compiere un passo simile.